Desidero anch’io, ringraziare, l’Assemblea regionale siciliana, di avere ospitato qui il nostro Convegno, in questa preziosissima Sala Gialla di Palazzo dei Normanni – in questa che fu una magnifica residenza, e che è la più antica residenza reale d’Europa -, e, di, ospitare, di conseguenza, il mio personale intervento che s’intitola: Il mondo? Uno schizzo venuto male a Dio
Questo titolo non vuole essere una blasfemia, né tantomeno aggressivo. Anche perché, oggi vi parlerò di un Artista molto, molto credente, e cristiano: Vincent van Gogh, che è stato un pittore il cui nome ognuno di voi conosce molto bene.
Il mio comunque – per tranquillizzarvi – sarà un intervento breve, perché non vi parlerò della vita di Van Gogh, né della sua biografia artistica, tantomeno della sua opera in generale che influenzò l’arte del XX secolo; per ragioni di tempo, per non esservi di tedio, e, soprattutto perché, per questo, esiste un lunghissimo elenco di sitografie dedicate, su internet.
Ma sinteticamente, sul Significato della vita, che è il tema di oggi, vi parlerò del suo dipinto più interessante in questo senso, e per me, comunque, più interessante in assoluto.
Per fare questo, occorre, prima di tutto, ricordare che Vincent Van Gogh, affermava, riguardo alla sua pittura, di preferire dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che nelle cattedrali non c’è – diceva -. Sono parole sue, e sintetizzano il valore che l’Artista misura: cioè il valore dell’introspezione psicologica, tramite lo sguardo.
Diceva anche che il modo migliore per amare Dio è amare molte cose. Ma quello che c’interessa, che è importante oggi per noi, è che Van Gogh sosteneva che non bisogna giudicare il buon Dio da questo mondo, PERCHÉ È UNO SCHIZZO CHE GLI È VENUTO MALE.
Dunque questo titolo non è mio, ma l’ho preso in prestito da Van Gogh.
Una premessa, tuttavia, deve segnare l’avvio della dissertazione critica di oggi, perché lega il grande Pittore al nostro tema di oggi (Il Significato della Vita): Vincent van Gogh scrisse, in una delle 600 e oltre lettere inviate a suo fratello Theo, udite bene: «L’uomo non sta sulla terra solo per essere felice, neppure per essere semplicemente onesto». «Vi si trova per realizzare grandi cose per la società, per raggiungere la nobiltà d’animo e andare oltre la volgarità in cui si trascina l’esistenza di quasi tutti gli individui».
Detto questo, l’ho detto, l’avete sentito bene, ma lo ripeto molto volentieri, perché è la frase più bella mai pronunciata da un artista: Vincent van Gogh scrisse, in una delle sue lettere al fratello Theo, «L’uomo non sta sulla terra solo per essere felice, neppure per essere semplicemente onesto».
«Vi si trova per realizzare grandi cose per la società, per raggiungere la nobiltà d’animo e andare oltre la volgarità in cui si trascina l’esistenza di quasi tutti gli individui». Riflettiamo noi, dunque, adesso, partendo da questa sua osservazione, ma con un inciso: Vincent van Gogh era vegetariano,
e la Società cui alludeva è quella di tutti gli animali, uomini compresi. Scrisse, infatti, in un’altra lettera a Theo questo: «Da quando ho visitato i mattatoi nel sud della Francia, ho smesso di mangiare carne».
Per Van Gogh, insomma, non basta essere corretti e onesti, occorre nobilitarsi a favore del bene e per la bellezza in generale: costruire, dunque, per migliorare quello schizzo di Dio di cui abbiamo detto. Come? Migliorando noi stessi, per arricchire e perfezionare la società, per trarre il Bene, dal male e non viceversa.
E qual è il dipinto con cui Van Gogh, oggi, contribuisce a questo nostro Convegno? come se fosse tra noi. Qual è la sua relazione scritta ‘per oggi’ con i pennelli ed i colori ad olio su di una tela del suo tempo?
Tutto inizia dal fatto che Van Gogh volle impegnarsi come predicatore laico nelle zone minerarie belghe, dove la gente viveva tra povertà e stenti, e lì, lui, per 6 mesi, prestò assistenza alle persone più fragili, e agli ammalati: visse tra loro e i contadini, condividendo, quotidianamente – con tutti questi signori – i pasti; pasti che erano insufficienti, miseri, e che venivano consumati su tavoli poverissimi appena appena illuminati. Da questi vissuti, da queste scene TOCCANTI, nasce, nel 1885, una delle sue opere maggiori oggi conservate nel Museo Van Gogh ad Amsterdam: I MANGIATORI DI PATATE; un olio su tela (82×114cm), che non è esclusivamente un dipinto artistico, ma di più: è sociale, è etico; un dipinto che, personalmente, renderei obbligatorio da studiare, nelle scuole.
Vediamo che cosa esprime il nostro pittore olandese, nel dipinto I mangiatori di patate? Esprime miseria! la miseria della vita contadina, con figure – come lui stesso ebbe a giudicarle – “ben definite nel disegno e nei colori” che però, mangiando patate, “non nutrivano, né il cuore né la mente”.
«Di tutti i miei lavori, ritengo il quadro dei contadini che mangiano patate…decisamente il migliore che abbia fatto»: scrisse, molto orgogliosamente, Van Gogh alla sorella Wilhelmina nel 1887, cioè ben due anni dopo aver portato a termine il dipinto; dunque col senno del poi.
Lo abbiamo detto prima: Vincent Van Gogh, riguardo alla sua pittura, affermava di preferire dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali.
Ecco che, infatti, gli occhi dei contadini diventano in questo dipinto ritratto della loro anima e denunciano la sete di un decoro intimo, del bisogno di dignità.
Quella che sto per leggervi, è la descrizione che lo stesso Van Gogh dà dell’opera I mangiatori di patate, divenendo il critico di se stesso e della sua opera. Ve la leggo.
«Voglio parlarvi della mia prima opera d’impegno, “ I Mangiatori di patate”, in cui ho tentato di esprimere il dramma della condizione umana che mi circonda.
Ho utilizzato una tavolozza di colori scuri e densi, il disegno ha l’intento di sottolineare i contorni sgraziati di poveri contadini abbruttiti che, nella penombra di un ambiente povero,
seduti intorno a un tavolo, consumano un pasto frugale a base di patate, fonte di sostentamento principale. Le pennellate, volutamente aggressive e vibranti, la pastosità del colore, tentano di rappresentare con “crudeltà” quelle mani deformate dal lavoro, quei volti ossuti e rugosi, illuminati dalla lampada con forti contrasti chiaroscurali.
Il mio intento è richiamare il dovere morale dell’arte per avanzare una denuncia sociale; lavorando ho voluto fare in modo che si capisse che quei popolani che, alla luce della lampada, mangiano le loro patate prendendole dal piatto, hanno personalmente zappato la terra in cui le patate sono cresciute…e ho voluto così che il mio quadro esaltasse il lavoro manuale e il cibo che hanno così onestamente guadagnato».
E in effetti, la tela esprime una forza straordinaria e parla della dignità del lavoro, del sacrificio e del valore dell’onestà.
L’opera, infatti, raffigura l’interno di una casa misera, dove altrettanto misera è l’illuminazione della lampada a petrolio sospesa, agganciata a una delle travi del soffitto. Si nota questa debolissima illuminazione che si manifesta, debole, ma si manifesta, come Luce, sulle cuffie bianche, sulle tazzine di caffè, e sull’altrettanto misero pasto delle cinque persone. Perciò cruciale, nella scena, è il nucleo familiare dei contadini che, al termine di una durissima giornata lavorativa nei campi, si ritrova e si raccoglie Ritualmente attorno a un tavolo, per mangiare.
Anche l’abitazione è misera, come pure è misero l’orologio da parete che, sulla sinistra in alto alla scena, segna l’ora del pasto, le sette di sera, perché poi, la mattina, bisogna alzarsi presto; mentre sulla destra, sempre in alto, sono dipinte dentro un contenitore le posate in legno, cioè quelle povere povere; si nota poi, a destra, in basso del dipinto, una teiera panciuta e vissuta, con beccuccio, manico e coperchio; ma A COLPIRE L’ATTENZIONE – STIAMO ATTENTI – è la stampa di un crucifisso per avvalorare la sacralità della cena: là, in alto a sinistra, dopo l’orologio.
Sono dunque i Valori a essere raccontati nel dipinto, come le regole, il concetto del lavoro quale unico mezzo ETICO di sostentamento, la sacralità della famiglia, e, non ultime, le cose semplici.
In questa sua meravigliosa opera Van Gogh, quindi, racconta, con la cena, la celebrazione dell’unione familiare. Lo fa, sia narrando un preciso rituale ed un linguaggio vestiarista e comunicazionale, giacché le donne portano la cuffia e gli uomini mettono il berretto; sia narrando la silenziosa riconoscenza tra le figure, che van Gogh esprime magistralmente nella lentezza dei gesti premurosi dipinti dove ognuno fa qualcosa per qualcuno! ed anche con quegli sguardi, sfuggenti che non s’incrociano MAI, segnati come sono, ma appagati; e per nulla intimoriti dall’oscurità notturna, ben narrata con inestimabili abilità pittoriche, dalle vecchie e logore finestre che inquadrano la notte.
Per finire: ed è importante – anche dal punto di vista della bravura tecnica per l’esecuzione dell’opera – è la bambina di spalle. Lei ha un ruolo ben preciso in primo piano, che è, sotto l’aspetto tecnico-narrativo e semantico, quello di barriera: LEI è sì un membro della famiglia, ma, soprattutto è un attributo per comunicare all’osservatore di essere capitato in un momento intimo; inoltre, la sua collocazione fra la fonte luminosa e l’osservatore, permette a Van Gogh di completare il dipinto con la controluce necessaria.
Pertanto, per tutto questo di cui abbiamo detto oggi, si può concludere, senza ALCUNA OMBRA DI DUBBIO, che il desiderio di aiutare i poveri e gli emarginati, compiendo azioni in tal senso, con tale proposito, costituisce per Vincent Van Gogh il vero significato della vita, della ragione e dello spirito.
Ma dobbiamo concludere anche rilevando due cose importantissime. La prima, dal punto di vista della CRITICA ARTISTICA, è che I mangiatori di patate è un dipinto fatto di impressionismo, di postimpressionismo e di neoimpressionismo e, cosa straordinariamente interessante e molto, molto sorprendente, di puntinismo. Sì, di puntinismo.
Nonostante la luce adoperata, tipica dei pittori fiamminghi; ma soprattutto viste le ampie pennellate molto concretamente e immensamente materiche, volute sull’opera da van Gogh per definire la nozione della sofferenza con toni di bruno scuro e terrosi, massicciati da grigi e dal nero, dove solo i volti e le mani dei contadini sono ravvivati da un leggero tono di giallo rossiccio, sorprende il fatto, tipico del puntinismo, che lo spettatore vive la scena con la distanza da essa. Con la tecnica del cromo-luminarismo tipico del puntinismo van Gogh regala allo spettatore un quadro da lontano e la sofferenza da vicino, spadroneggiando BENE in materia di divisionismo.
La seconda, dal punto di vista della STORIA DELL’ARTE, e della comunicazione, è che questo dipinto, di fatto, è la prima mappa concettuale di astrazioni espresse in forma sintetica.